La Costituzione italiana è “la più bella del mondo”, Benigni dixit. Al di là dell’aspetto divulgativo della chiacchiera costituzionale andata in onda in televisione, si può soggiungere che la Costituzione non può essere un feticcio, e la sua (spesso mancata) applicazione non è un mero fatto giuridico, ma politico e culturale. Si può agitare un testo come arma politica, ma il solo fatto che sia scritto e che valga formalmente come norma fondamentale dello Stato non lo rendono per ciò stesso decisivo.
Un programma politico del genere “torniamo alla Costituzione” ha un valore politico-polemico nei confronti dell’oggi (così come il “torniamo allo Statuto” di Sonnino), ma la Costituzione vive come vive la Storia, e l’impossibilità del ritorno alla lettera e allo spirito del testo del 1948 è sancita dalla storia d’Italia che da quel tempo ci separa. Si ponga mente alla distinzione tra costituzione formale e costituzione materiale.
Ma non parliamo qui di Benigni né, invero, solo della Costituzione. Su questo ci si può limitare a dire, civettando con Carlo Marx, che la storia della Carta fondamentale si è ripetuta due volte, la prima come Assemblea costituente, la seconda come Roberto Benigni (sia detto in termini puramente descrittivi). E forse, visto il corso degli eventi, non poteva che essere così: tra la prassi pluridecennale e i vari tentativi di riforma, si può dire che lo spirito del ’48 non vive più da molto tempo.
Il concetto su cui riflettere è quello del bello. Bella è la Costituzione; “la sinistra è bellezza”, parafrasando l’eloquio vendoliano. Ora, per Platone il bello ha importanza conoscitiva in quanto è anticamera del vero; a quest’ultimo è pertanto inferiore. Ciò che pare, osservando a volo d’uccello un certo modo di pensare di sinistra, è che si privilegi la dimensione del bello a scapito, o comunque nella sostanziale indifferenza per la verità.
Verità, beninteso, non giustapposizione di fatti veri. Il problema riguarda piuttosto una generale visione del mondo, riguardo alla quale si può parlare di scadimento, se non di vero e proprio compiacimento estetico, derivante dal piacere di stare dalla parte giusta. La Costituzione invece non è bellezza; è sangue. La cooperazione politicamente fruttuosa tra diversi partiti e culture al tempo della Costituente non può far dimenticare il conflitto che ne sta all’origine.
E soprattutto non può rendere bella una formula come quella secondo cui la Repubblica è “fondata sul lavoro”, perché essa rimanda piuttosto al conflitto tra capitale e lavoro, che conflitto era e rimane e non può essere abbellito in alcun modo. A meno di abbracciare, come la sinistra ha largamente fatto, un buonismo sconfinato che è solo indice di subalternità alla cultura liberale e individualista.
Privilegiare un’idea di sinistra legata alla bellezza, che poi vuol dire alla morale e ai sentimenti, vuol dire abbandonare qualsiasi prospettiva di pensiero dialettico, qualsiasi lettura della realtà come insieme di contraddizioni, e al contempo qualsiasi capacità di seria sintesi politica, che scaturisce dallo scontro o ne è strumento di reale prevenzione, ma che sicuramente non è ingenua espressione di un ecumenico “vogliamoci bene”.
Non è un bene che la sinistra abbia vieppiù ceduto sul terreno del pensiero e della teoria, accontentandosi invece del bello, del cinema, della letteratura, dell’arte e finanche della televisione, e creando così un vero e proprio estetismo di sinistra che sa più di vuota liturgia che di comprensione del reale. “La bellezza è rivoluzionaria”, “la cultura è rivoluzionaria” sembrano essere gli slogan più appropriati.
Ritengo invece che solo un saldo ancoraggio al vero consenta di non trasformare la politica in uno slancio moralistico. E il vero, in ambito politico, è il conflitto, che solo una politica alta sa comprendere e tenere a freno. In tal senso, il vero può essere brutto e magari anche noioso. Se la politica, se la sinistra devono affidarsi a Benigni e alla bellezza, oserei dire che c’è molto di sbagliato.
(pubblicato su Sinistra XXI il 21/12/2012)